Perché la Chiesa “parla” di migrazioni? Le migrazioni sono una dimensione costitutiva della persona umana, della società e della Chiesa, e questo sotto diversi punti di vista – storico, antropologico, sociale, economico, culturale e “anche” teologico-pastorale.

L’avverbio “ANCHE” sottolinea sia la necessità di studiare il fenomeno migratorio in maniera globale servendoci delle conoscenze delle scienze umane e sia per ricordare ai “puristi” del linguaggio teologico che questo non è tale perché parla “SOLO” di Dio, ma può esserlo “ANCHE” quando parla dell’umanità (“in cammino”) in relazione a Dio.

Come la Chiesa “parla” di migrazioni? Tra “migrazioni” e Chiesa (nella sua capacità di comprenderle e assumerle), invece di giustapposizione o semplice identificazione, c’è una “relazione”, una interazione, un interscambio, mai univoco, in cui le due realtà si comprendono a vicenda.

Il protagonismo dei migranti. Incontrare, ascoltare e contribuire a creare le condizioni per cui i migranti siano protagonisti nella costruzione sociale ed ecclesiale significa superare ogni approccio emergenziale che relega continuamente, pur con le migliori intenzioni, i migranti nello stigma, indelebile di vittima povera, sfruttata e inerme (donna a Paris).

Bisogna, perciò, liberare le migrazioni (e i migranti) da una “sindrome di Stoccolma al contrario” dove non è tanto la vittima a provare attrazione verso il carnefice, ma è il presunto “difensore” che non riesce a lasciar libera la povera “vittima”.

Solo così le migrazioni e i migranti potranno essere considerati via theologica / locus theologicus, segno dei tempi, opportunità storico-ermeneutica capace di aiutare la Chiesa a ripensare continuamente sé stessa e a rendere sempre più attuale ed efficace la sua missione in un mondo segnato dalla mobilità umana.